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Immagine del redattoreBianca Fungo

La chiave di Eldorado: capitolo 1

Aggiornamento: 14 mag 2021

Scritto da Bianca#Fungo, 13 anni

Polvere

«Potresti pulire la soffitta tesoro?» domandò a Rachel la mamma un’assolata domenica di

giugno. «Sul serio, ci prenderemo qualche malattia se continua così e io devo controllare le bollette e preparare la cena.»

La piccola Rachel, dieci anni, sbuffò tirando su gli occhi dal fumetto che teneva in grembo. Non aveva nessuna voglia di pulire la soffitta ma, non avendo niente di meglio da fare, si alzò dall’abbraccio caldo della sua poltrona preferita. Era una poltroncina di quelle vecchio stile, con lo schienale alto. Aveva buchi di sigarette da tutte le parti e la stoffa, un tempo blu elettrico, era diventata di un celeste sporco, quasi grigio.

«Allora ti muovi?» La mamma la riscosse dalle sue fantasticherie. Le capitava spesso di descrivere nella sua mente ciò che vedeva o che le succedeva, facendo finta di essere la voce narrante di un libro, per fortuna quasi mai a scuola. Le scale per la soffitta le scricchiolavano sotto i piedi.

«Mamma quando bisogna andare in soffitta deve sempre fare qualcos’altro e oggi è addirittura il suo giorno libero,» ridacchiò sotto i baffi. «Per me ha paura» concluse.

Le soffitte, in effetti, fanno quasi sempre paura e quella di casa di Rachel, anche se illuminata, non era da meno. Rachel, invece, non ne aveva per niente paura e per questo, le affibbiavano quasi sempre qualsiasi compito riguardasse in qualche modo la soffitta.

La mamma aveva ragione riguardo alla polvere. Si lasciavano le impronte come astronauti sulla luna e poche cose erano riconoscibili sotto lo spesso strato di polvere simile a fuliggine e dura come corteccia d’albero. Perfino l’aria era satura di un penetrante odore di muffa. Data la gravità della situazione, Rachel iniziò subito a strofinare il pavimento con uno straccio umido, che rivelava con fatica il pavimento di legno rossiccio.

Poi toccò ai libri, che andavano sbattuti sul davanzale delle finestre, per poi controllarli uno per uno per vedere se avessero perso pagine. I più rognosi erano però gli scatoloni di cose miste. Oltre ad avere bisogno di essere spolverati ed controllati nel contenuto, necessitavano un’accurata ispezione in cerca di scarafaggi, tarme, tarli e Dio solo sa cos’altro! E c’erano i documenti, gli scontrini del negozio di antiquariato della madre e una marea di altre cose, tra cui il soffitto, che la bambina ripuliva dalle ragnatele con un bastone, che ormai non era più del candido e plastico bianco latte originale, ma di un grigio sempre più tendente al nero.

Due ore dopo, Rachel si stava riposando appoggiata a una scatola, che si accorse quasi subito di non aver ispezionato. Quando si fu accertata che non ci fossero insetti molesti, toccando una cosa o l’altra le capitò in mano un pacchettino di carta da pacchi chiuso con lo scotch. «Non succede niente se lo apro,» pensò, «il nastro adesivo si può sostituire, quindi… nessuno se ne accorgerà.»

Aprì il pacco e con grandissimo stupore si rigirò tra le mani il contenuto.

La carta da pacchi conteneva una collana. Il filo era di un comune ma robusto pezzo di cotone, mentre all’estremità c’era la più bella pietra preziosa che Rachel avesse mai visto: una gemma circolare tagliata con maestria, di più o meno sei centimetri di diametro, di un azzurro vivissimo, ma allo stesso tempo trasparente come acqua. Sul retro c’era della polvere gialla incrostata, ma per il resto era perfetto.


Rachel ne era affascinata. «Che male c’è se la prendo a mo’ di ricompensa, non se ne accorgerebbe nessuno...» si sentì un po’ in colpa. «Ok voce della mia testa, la tengo solo per qualche giorno poi la riporto qui!» La voce della coscienza si azzittì. Di solito era raro che lo facesse. Non appena se la fu messa al collo, sentì la madre che la chiamava: «Rachel, Rachel Meadson! La cena!»

Le polpette di carne macinata sfrigolavano nella padella.

«Papà, quanti anni ha casa nostra?» chiese Rachel tra un boccone di carne e l’altro. Il padre ci pensò su, contò due o tre numeri sulle dita, poi rispose: «Centootto anni, basta guardare in soffitta ci sono anche cose della mia bisnonna. «La tua bisnonna era di un altro stato, come fanno ad esserci le sue cose?» ribatté Rachel, stupita da quell’affermazione.

«Arrivò con il treno, pensa, aveva solo ventitré anni.» La spiegazione non aveva per niente

soddisfatto Rachel, che nutriva ancora molti dubbi su come una cosa come il suo cristallo fosse arrivata in casa sua. Decise di andare a trovare, l’indomani dopo la scuola, suo zio Nelly.

Lo zio Nelly era un esperto di gemme o, come lo chiamava lei, uno gemmologo. Si faceva portare le pietre dalle catene montuose più impervie della Terra.

Le persone che gliele vendevano erano, come li chiamava lui, dei “cacciatori”. Gente che si

imbucava in grotte di montagna gocciolanti di argilla sciolta, scalpellando enormi rocce, capaci di far crollare loro l’intera montagna addosso, il tutto per trovare due o tre pietruzze brillanti, che poi vendevano a caro prezzo.

Lo zio Nelly passava ore a guardarle al microscopio, bofonchiando formule chimiche e schizzando la struttura molecolare su dei foglietti gialli. Quando ne trovava una che non conosceva, tirava fuori enormi libroni alti due spanne, che consultava dalla prima all’ultima lettera in cerca di quello strano minerale che, venendo da chissà quale desolata landa terrestre, era arrivato sulla sua scrivania. Prima di andare a dormire, riavvolse la collana nella carta e la chiuse a chiave nel cassetto del comodino. Poi, lentamente, scivolò nel sonno.

Sognò un enorme fiore bianco screziato di rosso scuro, con sette “x” sui petali.

Sognò una stanza piena di luce dorata, un pavimento scricchiolante di qualcosa che sembravano monete.

E un vecchio pieno di rughe e una bambina con gli occhi neri e dei grossi orecchini.

E tanta, tanta, tanta acqua fredda che le penetrava nei vestiti, ma la lei del sogno, chissà perché, non se ne preoccupava.


A colazione non si soffermò sul sogno, anche se notò che, a differenza dei soliti, questo non sembrava avere senso. «Mah,» pensò «Tutte fissazioni. Grazie di averci dannato l’anima, Freud!»

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