Una montagna. Una guerra, forse la peggiore. E la determinazione di molte donne, decise ad aggrapparsi con tutte le loro forze alla vita, decise a non arrendersi. Fiore di roccia.
C'è Agata. E poi Viola, Maria, Lucia. E poche altre, all'inizio. Sono loro che, all'inizio della Prima Guerra Mondiale, decidono di aggrapparsi alla vita. Alla speranza. Riempiono le caratteristiche gerle di rifornimenti, munizioni, viveri ma anche lettere per i ragazzi al fronte, ventenni (o meno) costretti a imbracciare il fucile per la patria. Ragazzi che di diverso da quelli dall'altra parte del confine hanno solo la divisa. È così che poche contadine friuliane tengono in vita un intero esercito, guadagnandosi il rispetto dei soldati, dei generali, degli uomini. Perché è questo che fanno le ragazze: si insinuano in un mondo completamente maschile per tenere in vita i propri conterranei - e coetanei - , nutrendoli di cibo e parole, scalando montagne, imparando a trattenere le lacrime quando qualcuna di loro se ne va. Cercando di nascondere l'orrore della guerra peggiore mai esistita tramite la speranza, il sudore e quella testardaggine caratteristica della povera gente costretta ad arrangiarsi come si può, soprattutto se il clima e il territorio non sono favorevoli.
Non sarà l'ampiezza di questo teatro di guerra a spaccarci la schiena, ma la sua distanza dal cielo.
La protagonista, Agata, affronterà ghiacciai, cecchini, pregiudizi e fatiche per non smettere mai di credere nel potere della vita, quello di ricostruire. Quando anche un Dio in cui si è sempre creduto sembra scomparire tra le trincee, e i fucili, e il sangue. Quando anche la fede sembra vacillare in modo sospetto, perché è impossibile pensare che qualcuno lassù possa permettere tutto ciò che succede quaggiù senza battere ciglio. Solo i più coraggiosi, i più perfetti, i più giusti, i più ingenui riusciranno a continuare a credere nel cielo, nella densità delle nuvole, nella vita. E nel frattempo Agata - che per avere poco più di vent'anni ha visto veramente troppo - deve conviverci, con la speranza nella vita, perché non c'è altro modo di andare avanti, in un mondo - e in un'epoca - in cui basta vacillare per cadere. Per sempre.
È come se la morte ci avesse chiamate alle armi per difendere la vita. Non possiamo attendere, né affidarci alla speranza. A volte penso che siamo noi la speranza. E siamo tante. Duemila donne, dicono. Un battaglione.
Ilaria Tuti ci regala una storia vera e dimenticata, quella delle portatrici, che durante la guerra - la prima - riversarono cibo, coraggio e proiettili dentro le gerle e iniziarono a camminare, in silenzio, o pregando, o cantando, su per i ripidi pendii delle Alpi, mentre i ragazzi morivano al fronte, loro, le donne, ricucivano le ferite, combattevano una guerra tutta loro ma non meno importante di quella in trincea. Una guerra diversa, ma non troppo, perché il sangue visto ogni giorno era davvero tanto. "Diversa ma non troppo", e nonostante questo, dimenticata. Dalla storia, dai libri di educazione civica, dalla gente. Ma non da Ilaria Tuti. E non dalle persone che hanno letto questo libro. Scritto con maestria, storie d'amore e di guerra si intersecano in un modo spettacolare, la vita di una giovane che di giovane ha solo l'aspetto, forse, perché la spensieratezza l'ha persa e la voglia di sognare pure.
Che senso ha sognare, se tanto i sogni non si avverano?
Che senso ha sperare, se tanto tutto è già perduto?
Che senso ha lottare, se tanto la morte ci ha già inquinato il nostro sangue?
Che senso ha vivere, se la vita non c'è più?
«Ci rivediamo alla fine della guerra, oppure pensami felice, in paradiso»
Fiore di roccia
Autrice: Ilaria Tuti
Anno di pubblicazione: 8 giugno 2020
Età adatta: dai 15 anni
Lunghezza: lungo (320 pagine)
Casa editrice: Longanesi
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